Padre Nostro, la preghiera perfetta
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Padre Nostro, la preghiera perfetta

Aspetti teologici, storici e letterari della preghiera insegnata da Gesù

La decisione di modificare la parte finale del Padre Nostro ha suscitato in chi non si occupa di linguistica e di teologia delle perplessità.

Gli esperti hanno invece applaudito a questa scelta, che viene a correggere diverse inesattezze concettuali.

Il Padre Nostro fu recitato da Gesù sicuramente in aramaico. Gli apostoli, i discepoli, e il popolo che lo ascoltava non avrebbe compreso alcun altra lingua.

Al tempo del Cristo, in Palestina erano diffuse tre lingue: l’aramaico (derivato da un dialetto babilonese e appreso dagli ebrei al tempo dell’esilio), l’ebraico (lingua rituale, utilizzata in ambito liturgico), il greco (idioma dei dotti, e di tutti coloro che scrivevano), e infine il latino (lingua giuridica dell’occupante). Non per nulla le notizie storiche sul cartiglio affisso sulla Croce ci riferiscono il testo in tre di queste lingue.

La versione in aramaico però, non ci è pervenuta, e non la troviamo in alcun documento antico. Il “Padre Nostro” più antico di cui abbiamo disponibilità è infatti stata rinvenuta in un Vangelo di Matteo, e successivamente in quello di Luca. Entrambi questi Vangeli sono stati scritti in greco. Non abbiamo infatti alcuna prova di Vangeli scritti in aramaico o ebraico.

Il Padre Nostro (in origine «Pater Emon» dal titolo greco), è stato poi ovviamente tradotto in tutte le lingue, tra cui anche l’aramaico e l’ebraico.

Per avere dunque una valutazione del significato della preghiera e operare un’analisi dei termini utilizzati dobbiamo fare riferimento unicamente alla versione greca. Tenendo comunque conto che il dialetto greco parlato all’epoca di Gesù nell’odierna Israele era la variante chiamata «koinè».

Arrivando alla polemica della «modifica» del Pater Emon, ci accorgeremo che in realtà non si tratta di un cambiamento del senso, ma di una corretta interpretazione alla luce di una traduzione più corretta.

Al centro della nostra attenzione dobbiamo mettere il sostantivo «peirasmos» (che nel Pater Emon troviamo declinato all’accusativo singolare «peirasmon»).

Il termine venne forse frettolosamente tradotto con «tentazione», senza però considerare che la traduzione può, a seconda della volontà espressiva, anche «prova». Il senso corretto sarebbe perciò di chiedere a Dio di non «indurre» alla prova.

Già così il senso cambia, ma non siamo ancora sulla strada definitiva e giusta. Sappiamo che Dio può acconsentire affinché siamo esposti a una prova. Siamo certi però che Dio voglia indurre in tentazione.

La risposta negativa a questa domanda ci arriva ancora dall’analisi di come questo testo è arrivato a noi.

Se il più antico Padre Nostro che conosciamo non è in aramaico, tanto meno lo è quello latino, che di fatto fu tradotto dalla versione greca koinè.

Il verbo utilizzato nel Vangelo fu ’εισφέρειν (eisferein) che non ha la connotazione di obbligatorietà di «indurre» ma vuole significare «guidare verso», «introdurre». Ricostruendo la frase sulla base di queste conoscenze, possiamo dunque affermare che il senso deve essere linguisticamente interpretato con «non lasciare che noi entriamo dentro la tentazione», o «non lasciarci soli quando siamo dentro la tentazione».

Ecco dunque che, in italiano corretto possiamo recitare «non abbandonarci alla tentazione».

A complicare le cose, dobbiamo ammettere, fu la traduzione in latino, che scelse il verbo «inducere».

Il cambiamento della parte finale del Padre Nostro, lungi da essere uno stravolgimento, risulta essere provvidenziale. Allo stesso tempo soddisfa le esigenze teologiche, per le quali è assurdo pensare a un Dio che ci «costringa» (inducere) in tentazione, ma anche quelle linguistiche, attraverso le quali siamo arrivati ad una versione che conserva le proprietà espressive corrette dell’idioma di partenza.

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